Parliamo di schwa: cos'è e come si usa?

Da qualche anno si vede sempre più spesso sui social di attivisti e persone vicine alla comunità LGBTQIA+, ma gli esperti di fonetica lo conoscono da molto più tempo: parliamo di schwa

Lo schwa, sì, al maschile, e più avanti spiegheremo perché, è un fonema, ovvero un suono, che fa parte dell’Alfabeto Fonetico Internazionale e indica un suono vocalico medio. Negli ultimi anni è stato usato prevalentemente da persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ come modo per sottrarsi a una lingua binaria (o maschile o femminile) come è l’italiano; già prima, però, il maschile sovraesteso era oggetto di critiche da parte delle femministe. Se l’utilizzo di questo fonema come una lettera sembrerebbe risolvere almeno queste due questioni, molti si sono scagliati contro quello che è sentito come un cambiamento imposto “dall’alto”. È veramente così?

Cos'è lo schwa?

Lo schwa è un fonema appartenente all’Alfabeto Fonetico Internazionale, ovvero quell’alfabeto stilato sulla base dei suoni usati nelle varie lingue e non sulla base dei grafemi, ovvero i segni grafici, usati per scrivere; in poche parole, è l’alfabeto che compone le trascrizioni fonetiche che troviamo accanto alle parole sui vocabolari e che indicano la pronuncia di queste ultime.

È un suono, quindi, già presente in alcune lingue, come il francese e l’inglese, per citarne due a noi geograficamente vicine, ma anche in alcuni dialetti: basti pensare al “jamm” napoletano, che si conclude proprio con un suono di questo tipo; non è invece presente nell’italiano standard.

Il nome di questo fonema, che appare come una “e” rovesciata (ə) deriverebbe da “shav”, termine ebraico medievale usato intorno al X secolo d.C. e traducibile con “niente”; l’utilizzo etimologicamente più corretto oggi è al maschile, “lo schwa”, perché in italiano è un prestito linguistico arrivato dal tedesco, lingua nella quale è neutro. Come molti altri prestiti neutri o senza genere, è entrato quindi in italiano come maschile, anche se nell’uso troviamo spesso la variante femminile, “la schwa”.

Possiamo pensare allo schwa come il punto medio fra tutte le vocali: come se si pronunciassero tutte insieme senza pronunciarne nessuna. E, se detto così sembra molto complicato, nei fatti non lo è: basta emettere un suono con la bocca semiaperta e rilassata.

Perché viene usato lo schwa?

Se, quindi, lo schwa è usato da tempo in quella branca della linguistica che è la fonetica, negli ultimi anni ha travalicato il confine di fonema per diventare anche un grafema, e quindi una sorta di “nuova” lettera, da usare in tutti quei casi in cui il maschile sovraesteso è considerato discriminatorio oppure da parte di quelle persone che si definiscono non binarie e che quindi non si riconoscono in uno dei due generi previsti dalla lingua italiana: il maschile e il femminile.

E non è il primo tentativo di autorappresentarsi anche attraverso le parole: ə, x, u, *, @ sono alcune delle strategie messe in atto per rendere il linguaggio più inclusivo, e spesso incontrano molte critiche da parte di chi è conservatore, non solo da un punto di vista linguistico, ma anche politico.

La desinenza viene quindi utilizzata:

  • quando ci si riferisce a una moltitudine mista, per cui il maschile sovraesteso non è rappresentativo: pensiamo a una persona che saluta altre persone dicendo «Ciao a tutti» anche se non tutte queste persone sono o si riconoscono nel genere maschile, escludendo di fatto sia il genere femminile che il genere non binario; per la grammatica italiana il maschile sovraesteso è la regola, ma è una regola che non rispecchia tutti
  • quando ci si riferisce a una persona che si riconosce come non-binary: ormai è dimostrato che lo spettro dell’identità di genere non corrisponde a una dicotomia (o maschio o femmina), ma è, appunto, uno spettro, e come tale comprende molte sfumature

Questo uso rispecchia due situazioni fino ad ora inedite nella storia dell’umanità:

  • da un lato il ruolo delle donne non è più collaterale come un tempo: non è più possibile ignorare quella che è letteralmente una metà del genere umano, e anche il linguaggio si è dovuto adeguare a questo mutamento sociale; da qui è scaturito il dibattito sulla denominazione di alcune professioni, un tempo precluse alle donne, ad esempio avvocata, ingegnera, architetta, e la discussione su quanto il maschile sovraesteso (“tutti” per riferirsi a una platea di uomini e donne, ad esempio) sia limitante
  • dall’altro la fluidità di genere è ormai un fatto; non che prima non lo fosse, ma da un punto di vista sociale, e per molto tempo anche scientifico, maschile e femminile erano presentati come due monadi che si escludevano a vicende. Adesso che non è più così, le persone non binarie, anche attraverso lo schwa, affermano il loro diritto all’autorappresentazione

Contro lo schwa

Come tutti i cambiamenti che si rispettino, anche la proposta di utilizzare lo schwa, per quanto nella pratica il suo impatto sia veramente minimo, non ha mancato di scaldare gli animi dei più conservatori, convinti che la lingua italiana da Dante in poi sia intoccabile.

Posto il fatto che non è così, e che una lingua, essendo strettamente collegata ai parlanti, è in continua evoluzione, sussistono alcuni aspetti problematici sull’utilizzo dello schwa. In particolare:

  • difficoltà di lettura da parte di persone dislessiche, neurodivergenti, scarsamente alfabetizzate, anziane
  • difficoltà di utilizzo: non sempre gli strumenti tecnologici con cui comunichiamo dispongono dello schwa nelle loro tastiere; a questo si aggiunga che i sistemi di lettura a voce alta usati ad esempio da ipovedenti e non vedenti non riconoscono questo simbolo

Se nel primo caso volendo includere rischia di escludere, nel secondo si tratta di un mero ostacolo tecnologico: in un mondo in cui si parla di turismo spaziale vuoi che non sia possibile aggiornare tastiere (come in alcuni casi è già stato fatto) e programmi di lettura ad alta voce?

Anche se l’uso dello schwa presenta problemi come questi, sembrano piuttosto argomenti posticci attraverso cui contrapporsi non tanto alla questione linguistica, quanto a quella sociale e politica che comprende i diritti della comunità LGBTQIA+, in seno alla quale si è iniziato a sperimentare questo utilizzo dello schwa e degli altri simboli che renderebbero il linguaggio più neutro e quindi più inclusivo.

Lo schwa nell'editoria

Lo schwa è utilizzato ancora oggi soprattutto sui social, ma sembra lecito chiedersi: come ha reagito il mondo dell’editoria alla comparsa di questa nuova “lettera”?

Il problema si è posto fra le prime alla casa editrice effequ di Firenze, al momento di tradurre dal portoghese il saggio dell’autrice brasiliana Marcia Tiburi, “Feminismo em comun”. Se fino ad ora ci siamo concentrati sui modi che la lingua italiana sta trovando per essere più inclusiva, va detto che non è l’unica e in base alla peculiarità di ciascuna lingua si sono messe in atto strategie diverse.

Lo spagnolo e il portoghese, ad esempio, utilizzano, insieme ai plurali maschile e femminile, un plurale in -e- che ha una funzione simile a un plurale in –ə e anche nel libro di Tiburi c’erano alcune occorrenze di questa forma: come tradurle?

La casa editrice ha optato proprio per lo schwa, estendendo questa scelta alla collana dei Saggi pop, opere che rispecchiano un certo sperimentalismo. Anche il saggio della sociolinguista Vera Gheno, “Femminili singolari” (2019) è stato ristampato nel 2021 in questa ottica e con un ampliamento sul tema dello schwa, che da qualche riga ha conquistato un intero capitolo.

Se Vera Gheno è una delle massime esperte in Italia di schwa e linguaggio inclusivo (il saggio citato ha al centro proprio le forme femminili dei nomi di professione), non è l’unica: anche Michela Murgia utilizza la desinenza -ə negli editoriali che firma per Repubblica e La Stampa e, insieme a Chiara Tagliaferri, nel volume “Morgana”, omonimo del podcast che le due autrici curano per storielibere.fm.

Una scelta non solo linguistica, ma anche politica: usare lo schwa significa mettersi a fianco di tutte quelle persone che non si sentono rappresentate dalla lingua così com’è, e proprio per questo l’idea che il suo uso sia imposto dall’alto non tiene, anche perché le accademie linguistiche (non solo italiane) sono tendenzialmente contro lo schwa.

... le parole sono importanti!

Lo sappiamo, non è la prima volta che citiamo Nanni Moretti e il suo «… perché le parole sono importanti!», ma è qualcosa in cui crediamo davvero. Se, infatti, da una parte una lingua è sempre normativa, perché funziona attraverso delle regole e delle convenzioni, dall’altro ogni lingua è costantemente soggetta a mutamenti.

E l’evoluzione di una lingua è determinata dal suo uso, quindi dai suoi parlanti, che la costruiscono inconsapevolmente a immagine e somiglianza di ciò che la circonda. Quando lo scenario politico, sociale e culturale muta, è normale che lo faccia anche la lingua che di quello scenario deve parlare.

L’utilizzo dello schwa e di simboli con una funziona analoga deriva quindi da un’esigenza ben precisa: ci sono persone che la lingua, così com’è, non nomina, e che hanno tutto il diritto di sentirsi rappresentate dalle proprie parole e da quelle degli altri.

Lo schwa è probabilmente l’esperimento, perché in questa fase ancora di sperimentazione si tratta, che funziona meglio, ma non è e non sarà l’unico: non è detto che entri in modo normativo nella lingua, come è invece successo per il pronome neutro “hen” svedese, ma il dibattito resterà aperto, e, per il momento, anche chi fa parte di quella che numericamente è una minoranza ha tutto il diritto di essere rappresentatə linguisticamente anche al di fuori della propria comunità: la fluidità di genere, così come la parità di genere, non sono tendenze che passeranno, ma prese di coscienza necessarie, alle quali la lingua si deve, in un modo o nell’altro, adeguare.

Fonti

HuffingtonPost
IlLibraio
IlPost
ItalianoInclusivo
LaFalla
LiminaRivista
Micromega
Storielibere.fm
Treccani

AA.VV., Non si può più dire niente. 14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture, UTET, 2022
V. Gheno, Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, effequ, 2021

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